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Il dolore è una sensazione che tutti noi conosciamo. Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di dolore? Il dolore è un fenomeno complesso che merita di essere preso in considerazione includendo anche gli aspetti soggettivi e psicosociali.

Il dolore ha un valore funzionale

Il dolore ci è utile perché segnala che c’è un pericolo di danno ai nostri tessuti e organi. La percezione del dolore consente di proteggersi. Infatti, il riflesso quando sentiamo dolore è quella di allontanarci da ciò che lo ha causato.

Il dolore è anche il segnale che il corpo manda per indicare l’insorgenza di una malattia. Questo segnale spinge la persona a interpellare il medico. Esiste una patologia rara, l’insensibilità congenita al dolore, che comporta l’incapacità di avvertire sensazioni dolorifiche attraverso il tatto, caldo e freddo compresi. I bambini che ne soffrono corrono il rischio di morire presto proprio perché non potendo percepire il dolore non hanno i segnali d’allerta che consentono di proteggersi o limitare da fonti interne o esterne di danno per l’organismo. Quindi avere la percezione del dolore è una cosa utile alla nostra sopravvivenza. Il dolore non svolge più in maniera efficace questa funzione protettiva quando dura troppo a lungo. Il dolore viene considerato cronico quando dura tra i tre e i sei mesi, o ancora più a lungo. 

Il dolore cronico è un fenomeno sociale

Il dolore cronico rappresenta una difficoltà per chi ne soffre, per le persone che vivono a stretto contatto, per il sistema sanitario e per la società. È un fenomeno complesso che ha componenti fisiche, psicologiche e comportamentali e che richiede quindi un’attenzione a 360 gradi e un approccio sistemico, che tenga in conto diversi aspetti e di come questi aspetti si influenzano tra di loro.

Partiamo dagli aspetti sociali e relazionali. Chi soffre di dolore cronico tende a organizzare le proprie giornate in funzione del proprio dolore. Le scelte che riguardano il lavoro, gli hobby, le relazioni vengono condizionate dal dolore. La qualità di vita è molto spesso significativamente compromessa. Spesso si evita di incontrare gli amici e uscire di casa, mettendosi così in una situazione di isolamento sociale che incide molto negativamente sul benessere psicologico. I problemi che possono emergere sono anche di natura economica. Molte persone che soffrono di dolore cronico hanno limitazioni sul lavoro e corrono anche il rischio di perderlo. Questo incide non solo sull’aspetto economico ma anche sul senso di auto-stima e sull’immagine che la persona ha di sé e potenzialmente sul tono dell’umore.

Il dolore cronico è “una questione di famiglia”

É importante coinvolgere i familiari quando si affronta una condizione di dolore cronico. La ricerca ha messo in evidenza che quando familiari e amici forniscono il giusto supporto, i pazienti affrontano meglio il percorso di cura e riportano di riuscire a gestire il dolore. Cosa vuol dire giusto supporto? Coinvolgere in attività piacevoli, fare insieme attività fisica che può giovare al paziente, non sostituirsi al paziente per evitare che “faccia fatica”. Infatti se questa sostituzione può inizialmente alleviare l’esperienza di dolore a lungo andare crea frustrazione in chi si è fatto carico dei compiti del paziente e aumenta il senso di inutilità, impotenza e mancanza del paziente. Se la persona affetta da dolore cronico non può dare una mano nei lavori di casa, può magari occuparsi di cucinare o di gestire l’amministrazione familiare, in maniera tale che all’interno della famiglia ci sia un’equa distribuzione dei compiti che faccia sentire tutti i membri partecipi e utili e nessuno oltremodo sovraccarico.

La “profezia che si auto-avvera”

Non tutte le persone che soffrono di dolore cronico rispondono esattamente allo stesso modo. C’è una componente soggettiva che va presa in considerazione, tanto che quando si parla di dolore si distingue tra “nocicezione”, con cui si fa riferimento ai meccanismi di trasmissione della sensazione di dolore, e “dolore” inteso come un’esperienza sensoriale ed emotiva. 

Gli aspetti psicologici giocano un ruolo importante: le ricerche hanno ampiamente dimostrato che la personalità, gli atteggiamenti, le convinzioni, le aspettative rispetto alla criticità della propria situazione e le risorse che si hanno a disposizione influenzano l’esperienza del dolore in maniera determinante. 

Facciamo un esempio, in diversi casi l’attività fisica ha un effetto positivo sull’esperienza del dolore. Se la persona che soffre di dolore cronico ha la convinzione che per fare attività fisica bisogna non avere nessuna condizione patologica non si impegnerà nell’attività fisica prescritta dal medico di riferimento, perdendo così l’opportunità di avere dei benefici per il proprio stato di salute generale. Queste convinzioni possono arrivare da miti e abitudini familiari o semplicemente da una mancanza di informazione rispetto a quelli che sono i benefici dell’esercizio fisico. Prendiamo un altro scenario: le persone convinte di avere una patologia molto grave sono tendenzialmente passive nella gestione del dolore e riportano livelli più bassi di benessere psicologico. Più un individuo è convinto di avere una patologia invalidante, più si sentirà limitato nell’affrontare il dolore, nel seguire la terapia prescritta e nel riuscire a ritagliarsi spazi di “normalità”. Così come è vero che se il dolore influenza negativamente l’umore, a sua volta l’umore influenza l’esperienza soggettiva del dolore. Alcune ricerche hanno dimostrato che persone con mal di schiena lombare che presentano gli indicatori per una diagnosi di depressione hanno una minore tolleranza al dolore rispetto a pazienti che non hanno un tono dell’umore basso. Possiamo dire che la componente soggettiva dell’esperienza di dolore cronico crea una “profezia che si auto-avvera”: più la persona è convinta che la propria condizione sia grave, fuori dal proprio controllo e da quello del medico, più l’esperienza sarà invalidante.

La trappola della visione catastrofica. 

La questione è proprio che molte persone che soffrono di dolore cronico sviluppano, sulla base della loro rappresentazione soggettiva, la convinzione che non ci sono risposte efficaci alla propria condizione. Questo può determinare una “visione catastrofica” della situazione e la convinzione personale che nulla di ciò che farà potrà migliorare la condizione. Quindi perché seguire la terapia? Quindi, è inutile adottare comportamenti che contribuiscono allo stato di salute (per esempio perdere peso o fare esercizio fisico). Quindi, impossibile impegnarsi in attività quotidiane come il lavoro o un hobby. Si crea quindi un circolo vizioso in cui la persona convinta di non poter in alcun modo sfuggire al proprio dolore, non farà nulla per cercare di migliorare la propria condizione, con un conseguente inevitabile peggioramento o comunque senza nessun miglioramento della propria condizione. Una volta una paziente con dolore cronico ha definito la sua condizione come “una prigionia”: all’inizio della psicoterapia era convinta che non ci fosse nulla che poteva fare per fuggire a questa prigionia. Con la terapia ha imparato che il modo in cui affrontava la prigionia poteva renderla più tollerabile. Ha imparato a distaccarsi dalla focalizzazione sul dolore e spostare l’attenzione su qualcosa di piacevole e gratificante. Il dolore non scompariva del tutto ma l’esperienza che per qualche momento l’esperienza del dolore potesse essere messa in background aveva un impatto molto positivo sul suo benessere psicologico. 

La buona notizia è quindi che esistono strategie e tecniche che possono determinare l’attivazione di un circolo virtuoso: varie pratiche di meditazione e la psicoterapia ipnotica rappresentano per esempio validi strumenti – basati sull’evidenza delle ricerche scientifiche – per migliorare la propria qualità di vita e benessere psico-fisico.